L’udito è una questione di tatto. Ci stranisce, perché percepiamo il suono come qualcosa di etereo, volatile: e invece è materia che sollecita la nostra meccanica sensoriale. Il suono può fare a meno delle superfici: attraversa l’aria e, con un piacere ancora più grande, attraversa l’acqua. Il suono infatti si propaga nell’acqua, rispetto a quando viaggia nell’aria, quattro volte più velocemente. È per sfruttare questa sua capacità che ci siamo inventati il sonar, ispirandoci a quella che nel mondo animale si chiama eco-localizzazione, uno strumento fondamentale per gli animali che vivono nel territorio più esteso del pianeta, gli oceani. Quando si ricorre a questo sonar biologico, ci si costruisce una rappresentazione mentale di qualcosa che è nascosto. Se lo stridio del pipistrello nasce nella gola ed esce dalla bocca o dal naso, il clic dei delfini nasce nel naso ed esce dalla fronte. Nel caso dei capodogli, dobbiamo abituarci al surreale. Il loro sonar viene prodotto nella stessa testa che contiene il cervello più grosso del pianeta: un cervello di 9 chilogrammi, 7 volte più grande del nostro. Come tutti i cetacei, si tratta di mammiferi che hanno vissuto per milioni di anni sulla terraferma e che 60 milioni di anni fa hanno deciso di tornare in acqua. Immersi nel buio, si orientano in un oceano di suoni. Sonar è un podcast del Post, immaginato e raccontato da Nicolò Porcelluzzi Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
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